Ho parlato di questa patologia nel 2012 e per quanto riguarda il modo di interpretarla e di trattarla la mia scelta rimane ferma a quanto detto in precedenza. Più sotto indico il link che altrimenti risulta farraginoso ripescare dall'indice.
Ritorno sull'argomento per darvi una rassegna di quanto si è fatto e si sta ancora facendo anche da parte della medicina ufficiale ( allopatica). Questo per dare ampi spunti di riflessione sulla complessità della materia e sui vari aspetti sui quali si cerca di far leva.
Inoltre, trovo utili alcuni consigli sui vari integratori che non avevo citato nel primo articolo.
Farmaci e consigli di tipo olistico
Per quanto riguarda questa parte che, ovviamente, a mio parere è la più importante, vi segnalo l'articolo che avevo scritto nel 2012:
http://olisticaedintorni.blogspot.it/2012/12/alzheimer.html
-- che cosa è
Esistono due sottotipi di Alzheimer in base all’età di insorgenza: precoce se inizia entro i 65 anni, e tardivo se dopo. La patologia può essere complicata o non complicata, con delirio o con depressione. I primi sintomi sono a carico della memoria e dopo un numero variabile di anni compaiono afasia, aprassia e agnosia. Alcuni pazienti presentano irritabilità e aggressività. Negli stadi più avanzati possono comparire disturbi dell’andatura, sintomi similparkinsoniani, mutismo. La durata media della malattia è 7-10 anni.
1° stadio= amnestico. Compaiono disturbi del linguaggio; dura 2-4 anni; il paziente si ripete spesso, non trova le parole, non trova oggetti comuni, perde interesse per attività precedentemente apprezzate. Non tutti i pazienti mantengono una critica sufficiente a percepire le loro inadeguatezze progressive. In questo stadio compaiono instabilità emotiva, irritabilità e reazioni imprevedibili.
2° stadio=demenza. Si ha perdita dell’autonomia; dura 2-10 anni; si hanno affabulazioni, acatisia, atteggiamenti polemici, frequenti anche delirio e allucinazioni; è comune la perdita d’interesse per la cura della propria persona; oscillazioni dell’appetito da eccessivo a scarso; diventa necessaria un’assistenza a tempo pieno.
3° stadio= vegetativo. Dura 1-3 anni; i pazienti hanno perso totalmente l’autonomia: non si alimentano, non comunicano, non badano all’igiene personale; essi necessitano una continua assistenza.
L’aspetto più tragico è che un’appropriata assistenza consente una sopravvivenza di durata imprevedibile: il paziente non muore per la sua demenza ma con la sua demenza per patologie intercorrenti. La suddivisione in stadi clinici è di comodo, ma, ovviamente ,non esistono due casi simili e il numero di combinazioni tra sintomi e loro gravità rende difficile una diagnosi di certezza. Tra i quadri clinici più atipici figurano quelli caratterizzati per lungo tempo da un sintomo dominante, quale un disturbo del linguaggio o l’aprassia. Inoltre, gli stadi iniziali possono presentarsi con sintomi non cognitivi come la depressione o il delirio, o la semplice irritabilità e agitazione o l’apatia, o come disturbi del sonno. La cosa difficile è la distinzione tra il decadimento delle facoltà cognitive connesse con l’invecchiamento e quello connesso con la demenza.
Comunque va tenuto presente che circa il 10-15% di tutte la demenze è potenzialmente reversibile. La cura delle malattie concomitanti, sempre presenti nelle demenze, consente sempre di ottenere anche un miglioramento delle capacità cognitive.
Note utili
— Nel cervello dei pazienti si trovano alcuni aggregati di proteine betamiloidi che possono essere la causa delle disfunzioni neuronali e dei problemi di memoria alla base della malattia di Alzheimer. Ma come si formano questi aggregati detti anche placche? Si ritiene che ci sia un errore nel ripiegamento proteico (cioè il processo con il quale la molecola assume la propria struttura tridimensionale). In base a ricerche successive,poi, è stato osservato che non sono le grandi placche a causare le malattie neurodegenerative, ma le aggregazioni più piccole di proteine, precursori delle placche stesse.
— due meccanismi implicati nell’accumulo dell’amiloide. Uno è un errore di rilascio: una sostanza da cui si origina la beta-amiloide non raggiunge la superficie ma rimane intrappolata nella cellula favorendo l’accumulo della pericolosa proteina: ma le cellule dispongono anche di meccanismi per lo smaltimento dei rifiuti, che provvedono a eliminare i depositi di sostanze tossiche, quindi anche di beta-amiloide. Quando il meccanismo si inceppa, o rallenta, ne deriva un accumulo di proteina con formazione delle placche che intasano i neuroni.
--la perdita precoce di sinapsi nell’Alzheimer, dipende dalla perdita di NCAM2, che a sua volte è provocata dagli effetti tossici della beta-amilode. Tutto ciò apre la strada ad un nuovo filone di ricerche su possibili trattamenti per l’Alzheimer in fase precoce, volti a prevenire la distruzione di NCAM2 cerebrale”.
—la proteina Dkk1 è quella che, attivata dalle beta-amiloidi, innesca il processo di distruzione delle sinapsi che è alla base della malattia neurodegenerativa. In uno studio recente sono stati trovati anticorpi che agiscono contro questa proteina. Avere identificato questi anticorpi, secondo gli esperti, potrebbe portare allo sviluppo di nuove possibilità terapeutiche come ad esempio produrre degli analoghi anticorpi su scala monoclonale per combattere in modo massiccio questa proteina.
--nei pazienti si riscontra la presenza di elevati livelli di omocisteina plasmatica, uno dei prodotti del metabolismo delle cellule. Inoltre, alcuni studi evidenziano l'associazione della malattia con livelli diminuiti di vitamine del gruppo B (Folato, B12 e B6), che sono responsabili dello smaltimento della stessa omocisteina. molto poco lavoro è stato fatto per cercare un collegamento causale fra queste alterazioni del metabolismo dell'omocisteina e l'insorgenza della patologia”.
-- i peptidi beta-amiloidi sono un interessante marker. Se i loro livelli sono troppo bassi nel liquor ciò indica che si tratta di un soggetto a rischio di sviluppare la malattia entro dieci anni
—E’ stato di recente predisposto un test che individua i depositi di beta-amiloide nei neuroni dei topi. Una sostanza fluorescente, iniettata nel loro cervello, rende rilevabili le placche con uno speciale microscopio, mentre di norma sono visibili solo all’esame autoptico. La disponibilità di un simile test sarebbe fondamentale per bloccare la malattia ai primi stadi.
Fattori di rischio
— Secondo uno studio molto imponente conclusosi nel 2015 e riportante la metanalisi di ben 323 studi, i fattori di rischio di Alzheimer sono nove, ma ne aggiungo uno proveniente da un altro studio e non certo di minore importanza: l’uso di benzodiazepine.
- obesità,
- fumo (nella popolazione asiatica),
- stenosi carotidea,
- diabete di tipo 2 nella popolazione asiatica),
- basso grado di istruzione,
- elevati livelli di omocisteina,
- depressione,
- ipertensione,
- fragilità.
- Uso di benzodiazepine
Questi fattori, tutti potenzialmente modificabili, contribuiscono alla comparsa di circa due terzi dei casi di Alzheimer in tutto il mondo. inoltre: un indice di massa corporea troppo alto o troppo basso nella mezza età e un basso grado di istruzione si associano ad un aumentato rischio di sviluppare la malattia. Secondo uno studio del 2014, pubblicato su British Medical Journal, assumere benzodiazepine per più di tre mesi, aumenta il rischio di Alzheimer del 51%; il rischio aumenta di pari passo all’aumentare del periodo di esposizione, ed è maggiore per le benzodiazepine long-acting, rispetto alle short-acting.
— Al momento sono stati individuati tre geni che, quando presenti in forma mutata, possono determinare le forme di Alzheimer familiari; si tratta del gene per la proteina precursore dell’amiloide (APP) e dei geni codificanti per la presenilina 1 (PSEN1) e presenilina 2 (PSEN2).
— Attualmente, la modalità con cui questa proteina viene eliminata dal cervello non sono del tutto chiare, tuttavia essa deve essere rimossa attraverso il sangue. Inoltre, i vasi sanguigni nel cervello, al contrario dei quelli presenti nel resto del corpo, possiedono proprietà specifiche che regolano in maniera precisa ciò che entra e ciò che esce dal tessuto cerebrale, una regione estremamente delicata, costituendo la barriera emato-encefalica (BBB). Un po’ come una sorta di ‘cancello’ che permette l’entrata e l’uscita, tale barriera regola in maniera ‘rigida’ lo spostamento di sostanze chimiche da e verso il cervello, in particolare lo scambio di metaboliti ed energia tra il sangue e il tessuto cerebrale. Il concetto dell’eliminazione periodica dal cervello della proteina beta-amiloide attraverso la barriera BBB potrebbe avere un potenziale eccezionale per i malati di Alzheimer nel futuro”.
collegamento con diabete
— Diabete tipo II : da tempo è noto che c’è un deficit delle funzioni cognitive nei soggetti con questa patologia. Il deficit cognitivo viene considerato un fattore di rischio di contrarre Alzheimer. Secondo uno studio eseguito su un vasto campione di pazienti è emerso che le donne potrebbero essere più vulnerabili degli uomini agli effetti dell’insulino-resistenza sulle funzioni cognitive. Una condizione di insulino-resistenza può essere presente anche molti anni prima della comparsa di un diabete di tipo 2. Alla luce di questi risultati diventa dunque ancora più importante ricorrere a efficaci misure di prevenzione, come il cambiamento dello stile di vita, soprattutto nelle donne a rischio di diabete di tipo 2, tipicamente quelle obese”. Ecco uno stralcio dell'articolo di Laura Berardi sul Farmacista on line di gennaio 2012:
“Dalla letteratura scientifica più recente era stato osservato che i pazienti affetti da Alzheimer presentavano una riduzione di insulina (ormone responsabile dell’assorbimento del glucosio a livello cellulare), tanto forte che si sarebbe quasi potuto parlare di una sorta di ‘diabete di tipo III’ – in aggiunta a quello giovanile e al diabete di tipo II, che colpisce in età avanzata. Lo scopo della nostra ricerca è stato proprio quello di identificare delle molecole che potessero essere coinvolte nel legame tra le due patologie”, ha spiegato la ricercatrice.
Lo studio è stato condotto utilizzando cellule di neuroblastoma umano in cui è stata mimata la patologia dell'Alzheimer. “Per farlo le abbiamo trattate con il peptide beta-amiloide, una molecola la cui presenza è la maggior causa dell'insorgere di tale patologia. Dopo questo trattamento è stata somministrata l'insulina è abbiamo osservato che la morte neuronale veniva bloccata e le cellule riprendevano la loro vitalità.
Il primo step è stato però quello di capire quale molecola all'interno della cellula potesse fare da interruttore tra il percorso di morte a quello di vita. “Abbiamo individuato che la proteina Akt, già conosciuta perché fa parte della ‘cascata di segnali’ attivati dal recettore dell'insulina, svolgeva tale azione: a seconda delle modificazioni che subiva, cioè se si trovava in una forma fosforilata o non fosforilata, poteva innescare o meno il meccanismo”.
La proteina Akt, proprio in base a quali modificazioni subisce, si muove infatti da un compartimento cellulare ad un altro (passando ad esempio dal citoplasma al mitocondrio), riuscendo ad annullare l’effetto degenerativo della proteina beta-amiloide (A-beta), coinvolta nell'eziopatogenesi della malattia di Alzheimer. “A seconda di dove si trova, Akt ‘dirige il traffico’ di altre proteine che possono trasferirsi o allontanarsi dal nucleo e dal citoplasma, attivando molecole responsabili della morte (apoptosi) o della sopravvivenza cellulare”.
Ma qual è il ruolo dell’insulina nel meccanismo? “Dopo essersi legata al suo recettore sulla membrana dei neuroni, l’insulina provoca una serie di reazioni biochimiche che hanno come chiave proprio la molecola Akt. In pratica, dopo il trattamento con l’insulina, i neuroni danneggiati erano capaci di riprendere la loro morfologia e ripristinare le funzioni compromesse”, ha continuato la ricercatrice.I passi successivi:
“La novità di questa ricerca e che abbiamo identificato un meccanismo legato al movimento delle molecole ed allo stato di modificazione che esse subiscono a secondo degli stimoli che ricevono”, ha spiegato ancora Di Carlo. “La proteina Akt risulta essere la molecola o una delle molecole coinvolte nel legame Alzheimer/diabete ed è un interessante potenziale target molecolare per disegnare farmaci mirati per questa patologia”.
Il futuro è quindi nello sviluppo di farmaci mirati? “I nostri studi stanno proseguendo addentrandoci sempre di più nei meccanismi molecolari che regolano queste patologie e stiamo iniziando a sperimentare la somministrazione di insulina con altre molecole antiossidanti, con risultati incoraggianti. Davanti a noi abbiamo la possibilità di sviluppare nuovi farmaci che, agendo in maniera mirata su Akt o sulle molecole da essa attivate, possono essere utilizzati nella prevenzione e terapia dell’Alzheimer”, ha concluso la ricercatrice."
Farmaci e integratori e consigli vari
- Prenditi cura del tuo cuore, 2) sii attivo dal punto di vista fisico, 3) segui una dieta sana, 4) sfida il tuo cervello, 5) godi delle attività sociali
Possono fare tutto questo anche le persone che soffrono già di demenza o che presentano segnali della malattia, contribuendo a rallentarne la progressione”
FARMACI ATTUALMENTE USATI
sono inibitori dell'acetilcolinesterasi
—RIVASTIGMINA (Exelon o Prometax)
—DONEPEZIL (Aricept o Memac)
—GALANTAMINA (Reminyl)
—MEMANTINA (Ebixa)
FARMACI E INTEGRATORI DI SOSTEGNO
— antiossidanti
— alte dosi di vitamina E anche in associazione a SELEGILINA
— FANS: J Roger e P Mc Geer sostengono che basterebbe un trattamento con INDOMETACINA per eliminare la reazione infiammatoria e disinnescare il processo degenerativo.
— estratti vegetali di GINGKO BILOBA
— L-CARNITINA. Una ricerca condotta dall’istituto Mario Negri rivela che la L-ACETILCARNITINA sarebbe in grado di rallentare la malattia attraverso l’aumento della produzione energetica da parte dei mitocondri.
—NIMODIPINA somministrata ad un gruppo di pazienti gravi ma con una residua capacità di memoria, ha ridotto di un 30% il deterioramento delle facoltà mentali, rallentando la progressione verso l’inabilità.
—Fattori NEUROTROFICI e l’NGF soprattutto, sono in grado di promuovere le funzioni metaboliche necessarie ai processi riparativi cellulari.
L’NGF, però non supera la BEE; si deve quindi cercare di stimolarne la produzione endogena e/o migliorarne l’utilizzazione: ed ecco un motivo in più per usare la L-ACETILCARNITINA; essa è in grado sia di stimolarne la sintesi che di migliorarne l’utilizzazione. Inoltre, essa contribuisce ai processi riparativi di membrana e, in questo caso, della membrana del neurone.
FARMACI CHE POTREBBERO ESSERE UTILIZZATI, ANCORA IN ATTESA DI CONFERME DEFINITIVE O DI AUTORIZZAZIONE PER QUESTA INDICAZIONE
— Gantenerumab . Ancora in fase sperimentale dal 2013. riduce la produzione di amiloide.
— S-adenosilmetionina (SAM), un coenzima prodotto dall’organismo, che si può trovare, oltre che nei farmaci contro la depressione, anche come componente di integratori alimentari.“Abbiamo studiato vari geni coinvolti nella patologia – dice il dr. Fuso che ha condotto questa ricerca – e abbiamo trovato che uno di questi veniva ipometilato in condizioni di deficienza vitaminica. Questo portava a un aumento della sua espressione. Il gene (che si chiama Presenilina1) è uno dei responsabili della produzione della proteina beta-amiloide, quella che è ritenuta essere la principale causa delle ‘placche senili’ caratteristiche del cervello dei pazienti affetti dalla malattia, che dunque veniva prodotta in quantità maggiori nei topi osservati”.
A questo punto, i ricercatori della Sapienza, hanno cercato il modo di annullare il peggioramento indotto dalla carenza di vitamine B e dall’aumento di omocisteina, con la speranza che questo potesse migliorare molte caratteristiche patologiche normalmente osservabili negli animali malati. “Dopo aver trovato questo collegamento causale, abbiamo deciso di provare ad usare una molecola che potesse favorire la metilazione. La S-adenosilmetionina era un ottimo candidato, visto che la molecola ha proprio questa proprietà ed era già stata usata in clinica come blando antidepressivo”, ha spiegato Fuso.
Per determinare se la SAM sia veramente efficace nei pazienti, occorre prevedere uno studio della durata di almeno 2-3 anni su un cospicuo numero di soggetti. Questi numeri, a cui si devono aggiungere le spese delle analisi neurologiche e di imaging, fanno si che il costo del trial risulti davvero elevato”.
—Due pigmenti, chiamati orceina e O4 , sarebbero in grado di convertire i piccoli aggregati tossici che generano la malattia in placche più grandi e sicure per i neuroni. I due coloranti studiati si legherebbero proprio a questi composti più minuti, promuovendone la conversione in placche più grandi, che secondo i ricercatori potrebbero essere dunque più sicure per i neuroni.
quindi Invece di rimodellare le placche proteiche, correggendo il loro ripiegamento, essi accelerano la formazione di aggregati molecolari più grandi. Per ora non sono ancora sicuri che l’accelerazione nella formazione di placche più grandi possa effettivamente ridurre i sintomi dell’Alzheimer negli esseri umani, ma gli scienziati sono comunque fiduciosi che i pigmenti appena scoperti possano aiutare nello sviluppo di un approccio terapeutico efficace contro la malattia.
—Secondo un importante studio americano di quest'anno, dei farmaci in grado di bloccare sul nascere la malattia sarebbero dei ben noti antipertensivi: il candesartan è la classe dei sartani in generale. Naturalmente non è ancora stato autorizzato l'uso per questa indicazione, ma nel mondo della farmacologia la cosa ha destato interesse.
— Secondo un altro studio, sempre del 2012, il Bexarotene, un farmaco antitumorale potrebbe essere utilissimo. Questo farmaco agisce, in base a quanto si è scoperto nella fase di sperimentazione sui topi, apportando miglioramenti nella memoria e nel comportamento, tanto che sembra riuscire a invertire i segni patologici dell’Alzheimer a poche ore dalla somministrazione: entro sei ore le placche amiloidi si riducono del 25%; meccanismo di azione: fa aumentare l’espressione del principale veicolo di colesterolo nel cervello, la proteina ApoE (Apolipoprotein E). Ma il farmaco sembra avere anche un ulteriore effetto, stimolando le cellule del sistema immunitario a ‘divorare’ i depositi amiloidei nel cervello, migliora i sintomi dell’Alzheimer.
Una prova in più è data dal fatto che gli animali da esperimento recuperavano anche le altre funzioni che vengono perse in questa malattia, come ad esempio l’olfatto.
La scoperta risulta quindi molto promettente, ma gli esperti ricordano che saranno necessari ulteriori accertamenti: per ora è stato dimostrato solo che il farmaco funziona sui topi, bisogna ancora dimostrare che abbia lo stesso effetto negli esseri umani , e per avere questa conferma dobbiamo attendere l’esito degli studi clinici.
— E’ in fase sperimentale un nuovo farmaco, il Cliochinolo, che intrappola le molecole di rame e zinco che altrimenti favorirebbero la formazione delle placche mediando l’interazione tra proteine beta-amiloidi. Rispetto al gruppo di controllo i 18 pazienti trattati con cliochinolo hanno mostrato migliori capacità cognitive e una ridotta quantità di beta-amiloide. Ma per sapere quando è il momento di intervenire occorre un test per diagnosticare precocemente la malattia, prima che se ne manifestino i sintomi.
— IL VACCINO è capace di innescare una risposta immunitaria contro la beta–amiloide. Esso induce la produzione di anticorpi, che si legano al peptide che causa la malattia, favorendone così l’eliminazione”.
“Sono ormai 10 anni che ricercatori di tutto il mondo stanno esplorando la possibilità di prevenire l’Alzheimer con un vaccino: le prime sperimentazioni sull’uomo hanno acceso molte speranze, ma anche evidenziato possibili effetti collaterali gravi, che ne impediscono l’utilizzo”, ha spiegato Antonella Prisco, dell’Igb-Cnr, coordinatrice della ricerca. “Usando il bagaglio di esperienze accumulato, abbiamo messo a punto la molecola (1-11)E2, cercando di minimizzarne i rischi per l’organismo e di ottimizzarne l’efficacia terapeutica”.
La sperimentazione è attualmente nella fase pre-clinica, che prevede la somministrazione del vaccino ai topi normali.
fattori protettivi
I fattori protettivi.Gli ormoni femminili (estrogeni), sembrano avere un effetto protettivo molto forte contro la comparsa di morbo di Alzheimer, come anche i farmaci anti-colesterolo (le statine), gli antipertensivi e i farmaci anti-infiammatori non steroidei. Altri fattori protettivi vanno ricercati nella dieta e sembrano essere folati, vitamina C ed E e il caffè. Condizioni patologiche pregresse, associate ad un basso rischio di Alzheimer sono una storia di artrite, di cardiopatia, di sindrome metabolica e di tumore. un indice di massa corporea elevato più avanti nel corso della vita, il fatto di tenere in esercizio il cervello, quello di essere fumatori attivi (tranne che per la popolazione asiatica) o di indulgere in un consumo di alcol lieve-moderato rappresentato fattori protettivi. L’olio di oliva: secondo uno studio del 2013, effettuato su ratti e topi cui era stata indotta la malattia (E già questo criterio per me è assolutamente orribile ma è routine in farmacologia), l’OLEUROPEINA, principio attivo presente nell’olio di oliva fa diminuire la produzione di amiloide e migliora sia le capacità motorie che la durata di vita.
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